"Tutto cambia al di là di queste mura.
Qui invece tutto resta uguale, cristallizzato. Siamo un baco che mai si trasformerà in farfalla"

martedì 27 giugno 2017

La necessità di un nuovo linguaggio per mettere fine alla violenza sulle donne

L'altro giorno sull'autobus mi è caduto l'occhio sullo schermo del cellulare di una ragazzina seduta davanti a me. Avrà avuto quindici o sedici anni. Chattava in modo frenetico con un'amica. Il messaggio che ho letto diceva: "no, sei fuori, se ci stavo sarei una troia". Al di là del mancato uso del congiuntivo, mi è sembrato molto triste che una ragazza usasse per se stessa un linguaggio così maschilista e sessista, che le sembrasse naturale definirsi "troia". Un ragazzo, al suo posto, si sarebbe definito un "figo", con un'accezione positiva, laddove "troia" nella testa della ragazza (e non solo, anche nel sentire comune), ne aveva senza dubbio una negativa.
La rivoluzione culturale per mettere fine alla piaga della violenza sulle donne dovrebbe riguardare anche il linguaggio, o forse partire proprio da quello. Espressioni del tipo "quella donna non può fare il sindaco perché non ha le palle" non dovrebbero più sentirsi.
Una rivoluzione culturale che dovrebbe riguardare soprattutto i più piccoli, perché ancora immuni dal virus della violenza. Purtroppo a volte è già troppo tardi. Mio figlio l'altro giorno si è lamentato perché all'asilo alcuni suoi compagni maschi gli avevano detto che se voleva giocare con le femmine allora voleva dire che era una femmina anche lui. Questi bambini non sono nati idioti, lo sono diventati ascoltando gli adulti. Adulti che magari hanno anche detto ai loro figli che i maschi non possono giocare con le bambole, che i maschi non devono piangere, che ai maschi non può piacere il colore rosa. I genitori non si rendono conto (o forse sì, e gli va bene così) che stanno inculcando nei loro figli una cultura fortemente maschilista, una cultura violenta e zeppa di stereotipi stupidi e dannosi.
E il risultato è purtroppo sotto gli occhi di tutti: una società in cui la donna è soggetto debole e a rischio, che non gode degli stessi diritti dell'uomo (basti pensare al mondo del lavoro) e da quest'ultimo è spesso minacciata e sottoposta a violenza, fisica e verbale. Quest'ultima spesso sottovalutata, ma che può avere delle conseguenze altrettanto gravi e durature.
In un bel film nelle sale in questi giorni, "Una doppia verità", una donna è costretta a convivere con un marito violento. A un certo punto del film, quelle che sembravano essere violenze fisiche vengono messe in dubbio e allo spettatore viene fatto credere che potesse trattarsi "solamente" di violenze verbali. Non è chiaro se ciò debba, nelle intenzioni del regista, far nascere una sorta di giustificazione nei confronti del marito, farlo sembrare agli occhi dello spettatore un essere meno spregevole di quanto si fosse immaginato. Il rischio, chissà se calcolato o meno, è quello di sminuire la violenza verbale, che in molti casi rappresenta invece il primo passo di un percorso dalle conseguenze spesso nefaste.
Il riconoscimento precoce di qualsiasi forma di violenza, anche quella verbale, è infatti elemento necessario per provare a scardinare un fenomeno che in Italia ha assunto proporzioni inaccettabili per un paese che vorremmo definire civile. Ogni quattro donne uccise, tre sono ammazzate in ambito famigliare, dal proprio compagno o da un ex. Una percentuale tra le più alte in Europa, e di molto superiore ad altri paesi quali la Germania, la Francia, e persino la "machista" Spagna (dati ONU).
Un paese, l'Italia, in cui per molti uomini è normale litigare con la propria compagna con un coltello in mano, in cui troppi uomini non sono in grado di accettare un rifiuto, in cui molti uomini si sentono sminuiti se la propria compagna guadagna più di loro, in cui troppi uomini considerano normale umiliare la propria compagna, denigrarla, farla sentire inferiore e inetta.
Per far fronte a una situazione dai contorni drammatici, un cambiamento del linguaggio da solo certamente non basta. Eppure sono convinto che quando una ragazza di sedici anni si sentirà libera di fare sesso con un ragazzo che le piace appena conosciuto (prendendo, si spera, le precauzioni del caso), senza per questo definirsi "troia", potremo dire di aver fatto degli enormi passi avanti verso una società migliore. 

3 commenti:

  1. Il linguaggio è rivelatore di categorie. Non è sufficiente intervenire sul linguaggio, ma è necessario farlo, perché il linguaggio esprime una valutazione di sé e degli altri. Fondamentale è educare alla stima e al rispetto, più profondamente all'amore di sé e degli altri. - Nicolò

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  2. È vero il problema nasce da una cultura intrisa di sessismo ed rivelato dal linguaggio, un terreno in cui molti di noi inconsapevolmente rafforzano il problema stesso. Bravo Diego che lo evidenzi!

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  3. Ciao caro Diego. Per come mi sembra di vedere le cose, quello di cui parli è il pezzetto di un sistema di pensiero più ampio, e sfortunatamente universale. Perciò niente da aggiungere riguardo razzismo, sessismo eccetera. Secondo me ci sarebbe molto da dire sul fondamento stesso dell'identità umana così come è comunemente condivisa. Mi sembra che l'aggressività, l'individualismo e il giudizio sfrenato non siano semplicemente veicolati o autogenerati dal linguaggio o dalla cultura, ma che la producano. La domanda potrebbe essere dove siano l'origine e il principio primo di questo sistema di pensiero, che è il fondamento di qualsiasi sistema sociale di qualsiasi epoca (tranne forse sporadici isolotti buddisti o simili). Voglio dire che scuole, famiglie e leggi ad hoc possono sì tentare di disciplinare cultura e comportamenti, ma questo è prendere il drago per la coda e non per la testa. Ho firmato anch'io per il riconoscimento del reato di "femminicidio", ma intimamente penso sia un provvedimento effettivamente insulso, perchè rischia di ghettizzare ancora di più la condizione femminile... un omicidio è un omicidio e basta; ulteriori distinguo non fanno che confermare sottilmente le divisioni. Credo che sarebbe utile concentrare l'attenzione sul ruolo dell'ego e della paura nella nostra percezione di noi stessi, nella nostra modalità di convivenza, di ripartizione dei beni, di visione degli altri in genere.
    "Amerai il prossimo tuo come te stesso" probabilmente NON è un comandamento ma un gentile avvertimento: vale a dire, nella misura in cui uno si ama e si rispetta, amerà e considererà anche gli altri, e niente di più di così. Sicchè vedere troie, ladri e profittatori, dice poco del prossimo ma molto di se stessi...
    Questa almeno è la mia riflessione, di questi tempi.
    Un saluto, Mogi Massimo Vicentini

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